Gli studi dimostrano che un paziente che ha la possibilità di "raccontarsi" (e viene davvero ascoltato) segue meglio le terapie e ha più probabilità di guarire
Secondo
Gabriel Garcia Marquez la vita è quello che ricordiamo per poterlo
raccontare. E diventa ancora più vero quando ci si ammala: la
malattia è ciò che vive e racconta il paziente, non soltanto segni
e sintomi. Ogni caso ha la sua storia: narrarla può essere
terapeutico, ascoltarla significa passare dal curare al prendersi
cura. Un cambio di prospettiva merito dalla medicina narrativa, nata
per valorizzare il vissuto dei malati e non considerare più la
patologia un semplice fatto biomedico.
I
reclami all’ospedale riguardano quasi sempre la comunicazione tra
paziente e medico
Arrivata
in Italia da oltre dieci anni, di recente è stata protagonista, a
Firenze, di un convegno per fare il punto su ciò che si è
realizzato e sulle prospettive future. «La medicina narrativa si
basa sul rapporto fra medico e paziente, strumento potente e
sottovalutato — spiega Stefania Polvani, coordinatrice del
Laboratorio di Medicina Narrativa della ASL di Firenze, uno dei primi
a portare in Italia questo nuovo approccio —. Oggi, se va bene, un
colloquio in ambulatorio con il medico dura qualche minuto. Chi
soffre, però, ha voglia di parlare, di avere una relazione vera con
chi lo cura, di sentirsi chiamare per nome. Se non accade, il
malessere diventa più grande e non a caso molti poi si sfogano sui
blog nella rete». «In un nostro studio abbiamo analizzato 110
reclami presentati in ospedale — continua l’esperta — e abbiamo
potuto riscontrare che lo scontento si riferiva quasi sempre alla
mancanza di rapporto e di vera comunicazione con i medici». Nel 57%
dei casi i problemi derivavano dalla mancanza di spiegazioni e
dialogo, nel 48% si lamentava scarsa relazione con i medici, nel 36%
discrepanza fra bisogni del paziente e percezione del curante.
Allo
studio una cartella clinica integrata in cui inserire anche le parole
del malato
La
soluzione potrebbe essere la “cartella clinica integrata”
proposta dalla medicina narrativa, nella quale far confluire le
parole dei malati per accogliere l’esigenza di raccontarsi e non
essere solo un numero, ma anche per migliorare la pratica clinica,
come spiega Maurizio Dal Maso, direttore sanitario della ASL1 di
Massa e Carrara e coordinatore scientifico del congresso : «La vera
cura passa dal coinvolgimento diretto e attivo del paziente. Metterlo
al centro, ascoltandolo per sapere che cosa pensa e come si sente
davvero, aiuta a creare percorsi di cura condivisi, ridurre le
pratiche inutili, migliorare le terapie». Il progetto NAME
(Narrative Based Medicine), portato avanti a Firenze, sta dimostrando
che la medicina narrativa consente diagnosi più approfondite,
favorisce le relazioni fra paziente, famiglia e medici, ottimizza la
qualità del servizio ma, soprattutto, ha un impatto sull’esito
delle cure, perché i malati le seguono meglio e si riduce la loro
sofferenza. Uno studio condotto in ambulatori di cardiologia su 150
pazienti, metà visitati secondo metodi standard e l’altra metà
coinvolti in un colloquio con uno psicologo e un medico appositamente
formati, dice che l’approccio narrativo migliora l’equilibrio del
malato, che esce più tranquillo, sereno e consapevole della malattia
e dei suoi sintomi.
L’importanza
di non essere considerati un corpo da guarire
«Parliamo
spesso, ad esempio, di mancata aderenza alle terapie — riprende
Stefania Polvani —. Ricordo una paziente che una volta mi disse di
avere consapevolmente “dimenticato” le proprie medicine, perché
per un giorno voleva fare una passeggiata al mare e non sentirsi
malata: ascoltare questi racconti serve per capire meglio chi abbiamo
davanti e rispondere davvero ai suoi bisogni di cura. Ed è possibile
farlo in qualsiasi reparto: abbiamo applicato la medicina narrativa
nelle malattie rare, in oncologia, con i cardiopatici, nella malattia
di Alzheimer e perfino in terapia intensiva, dove può sembrare
impossibile e dove invece emerge con più forza l’importanza della
parola, di non essere considerati un corpo da guarire ma una persona
nella sua interezza».