Bimbi irrequieti. Ansia
sociale e da lutto. Teen timidi. Per un discusso manuale americano si
tratta di malattie mentali. Come altre trecento. Ma è un errore, spiega
un grande maestro. E può fare seri danni. Parla Eugenio Borgna
«La fame di ricette semplici trova nel Dsm-5 la sua epifania più
sconvolgente». Così Eugenio Borgna, uno dei più grandi psichiatri
italiani, studioso della “dimensione profonda e soggettiva del disagio
psichico”, come ricorda su di lui la Treccani, commenta la quinta
edizione del manuale di riferimento per la salute mentale nel mondo: il
cosiddetto “Dsm”. Firmato dall’
American Psychiatric Association
,
il tomo che classifica l’animo umano in oltre 300 potenziali disturbi
arriverà in Italia il 28 marzo, tradotto da
Raffaello Cortina
.
Dopo tredici anni di lavoro e decine di migliaia di esperti coinvolti in
studi e conferenze, i guru statunitensi della mente hanno stabilito «un
linguaggio comune» per definire i nuovi «standard» con cui «la vita di
milioni di individui» può essere compresa nelle sue patologie (parole
del presidente del progetto, David Kupfer) mettendo nero su bianco quali
sofferenze possono essere chiamate «disturbi» e quali no, da quali
avvisaglie possiamo capire se un bambino è iperattivo o un amico
depresso, secondo quali test (sì, ci sono anche i questionari a
crocette) la nostra ansia andrebbe curata con un blister oppure la
timidezza che mostriamo in pubblico avrebbe bisogno di una terapia. Uno
strumento apprezzato, utile, usato. Ma anche oggetto di profonde
critiche.
«Come già aveva scritto Kafka, è più facile prescrivere delle ricette,
fare delle diagnosi, che non invece ascoltare chi sta male, perché
quest’ultima cosa esige tempo, esige attenzione, esige riflessione»: dal
suo studio di Novara, Borgna commenta così queste «tavole della legge
che presentano soltanto paradigmi esteriori», perché sconfessano in
partenza, dice, quello che dovrebbe essere il fondamento della
psichiatria.
Cosa c’è che non va nel manuale?
«Le premesse. Queste tavole chiedono che tutti guardino con gli stessi
occhi gli stessi sintomi. Sintomi che si dovrebbero ripetere identici in
ogni parte del mondo. Ma la tristezza, l’angoscia, la colpa, la volontà
di morire, le esperienze dell’animo umano non possono essere
classificate come se si trattasse di una pancreatite. Non basta
riconoscere dei segni esteriori, dei comportamenti evidenti, per
stabilire cosa sta succedendo in quell’interiorità. Queste tavole
finiscono per escludere a priori l’unico elemento che conta davvero
quando si tratta di fare una diagnosi psichiatrica: la soggettività».
Non è utile avere degli schemi che spieghino come riconoscere una malattia?
«Stiamo parlando di oltre 300 diagnosi. Ovvero di una furia
classificatoria che ha perso ogni giustificazione. Il “Dsm” è uno
strumento utile quando si tratta di circoscrivere e individuare i
sintomi principali di malattie codificate come la schizofrenia. Ma i
mille occhi dei medici che hanno redatto queste 947 pagine arrivano a
micro-visioni analitiche che rischiano di rendere patologica ogni forma
di sofferenza».
Pensa a disturbi come l’ansia sociale o al fatto che il lutto
non sia più inserito tra le “giustificazioni” per escludere una diagnosi
da depressione?
«Penso a tutte quelle descrizioni che sembrano suggerire l’idea per la
quale ogni ostacolo ci impedisca di corrispondere a una vita che scorra
senza problemi, senza cadute, senza dolore, senza tristezze, dev’essere
etichettato come patologico. Il “Dsm” è un edificio costruito su parole
aride. Uno sguardo rivolto ai segnali esteriori della malattia, che non
considera l’interpretazione della soggettività che si ha di fronte.
Eppure solo ascoltando l’altro potremo capire se la sua sofferenza è
patologica oppure no».
Ma è una necessità medica quella di dare delle regole scientifiche alla disciplina.
«Dipende da cosa consideriamo scientifico. Se pensiamo che la
psichiatria sia una scienza naturalistica, che si occupa di problemi
riconducibili a disfunzioni biologiche, allora sì. Non è così però. La
depressione non è l’appendicite. Le forme che può assumere il dolore
cambiano a seconda del contesto sociale e ambientale di quella persona.
Cambiano a seconda delle origini di quella sofferenza. Cambiano
addirittura a seconda di come noi stessi ci relazioniamo con il
paziente. E se non indaghiamo le cause profonde, interiori, da cui
scaturisce la tristezza, non saremo mai in grado di fare una buona
diagnosi. Questo sguardo però è escluso dal manuale di cui stiamo
parlando».
Non sono più solide le diagnosi che si effettuano seguendo quelle linee guida?
«La scientificità del “Dsm” è provata dalle ricerche su cui gli autori
affermano di essersi basati. E cosa sono le mie vaghe parole
pseudo-mediche, così fragili, evanescenti, di fronte alle certezze che
regnano nel manuale? Potrebbero essere considerate chiacchiere. Ma il
fatto è che in Italia questa psichiatria “non-scientifica”, ovvero
relazionale, dialettica, che il manuale rifiuta, ha portato alla
chiusura dei manicomi. Abbiamo dimostrato, con l’esperienza concreta,
che le cure sono più efficaci non se diventano più gelide, più cliniche,
non se prescrivono più farmaci, ma al contrario se i farmaci li
sottraggono, e se al loro posto si danno parole, ascolto, si danno
pazienza e silenzio. Loro saranno anche scientifici. Ma noi curiamo le
persone».
Però se il volume viene tradotto in tutto il mondo significa che a qualcuno quelle diagnosi piacciono.
«Certo, a chi non vuole perdere tempo».
Si spieghi meglio.
«Il successo del manuale è dato dalla sua capacità di uniformarsi alla
tendenza oggi dominante: quella di escludere l’interiorità dalle scelte
che facciamo, di proporre modelli che consentano la realizzazione
automatica delle cose, di trovare soluzioni prefabbricate, senza che la
ricerca dei significati ci faccia perdere tempo. È ovvio che è più
faticoso fare una diagnosi che prescinda dai criteri semplici e
lapalissiani proposti dal “Dsm”. Ma il tempo che si perde per capire un
paziente ha un significato. È testimone di quella solidarietà umana che
dovrebbe essere alla base del rapporto con l’altro».
Gli autori giustificano questa semplicità come un tentativo di rendere il manuale comprensibile a tutti.
«Ovvero a chi?».
Ai medici generici, per esempio.
«Ecco: una prospettiva inquietante».
Perché?
«Gli psichiatri hanno a che fare soprattutto con schizofrenie o
depressioni psicotiche, che sono poche: la schizofrenia è un caso su
cento, la depressione psicotica 0,6. Invece con le sindromi ansiose, la
tristezza, l’ipocondria, arriviamo a quanto? Al 20 per cento, al 25,
secondo alcuni. E si tratta di pazienti che si rivolgono nella
stragrande maggioranza dei casi ai medici di base, i quali ora hanno sul
tavolo un testo che consente loro di applicare protocolli
sovrapponibili a quelli con cui diagnosticano i mal di stomaco».
Dà loro più strumenti, no?
«No. Li mette in una difficile condizione. Non sono psichiatri: hanno
una specializzazione importante ma non sono psichiatri. Ma quando vedono
in un paziente i sintomi esteriori descritti nel manuale, sentono la
responsabilità di agire. Perché il testo sul quale si fonda la
psichiatria internazionale dà loro criteri tali per decidere quali
psicofarmaci somministrare dinanzi a qualunque forma di ansia, di
sofferenza psichica, di quelle che riempiono, riempivano e riempiranno
gli studi dei medici di base».
Qual è il rischio?
«Ci sono sofferenze che ai nostri occhi possono sembrare laceranti e
invece agli occhi di chi le vive sono dotate di senso. Il problema della
psichiatria è valutare se questo senso corrisponde ai valori comunitari
oppure se è un senso soltanto individuale, narcisistico; allora sì che
interviene il giudizio del medico. Ma è una valutazione complessa.
Soprattutto se prevede terapie farmacologiche che agiscono su equilibri
delicatissimi. E che se mal prescritte possono avere conseguenze
disastrose, fino al suicidio».
E se lo legge una mamma, il manuale?
«È un precipizio. La percezione soggettiva di una madre e di un padre
della sofferenza del proprio bambino, se letta attraverso una di queste
descrizioni, li porta a deformare la loro visione. E conduce poi il
medico, che fatalmente deve fondarsi su quello che i genitori e gli
insegnanti dicono del bambino, a formulare diagnosi già belle
confezionate. Magari senza mandarlo nemmeno da uno psicologo che
potrebbe essere sicuramente più utile dell’uso di farmaci».
Ma le persone chiedono di dare un nome al malessere, di guarire dalla sofferenza.
«Certo. Sarebbe infinitamente più comodo se un antidepressivo mi
risolvesse l’angoscia per la morte di una persona cara, ad esempio,
senza farmi perdere tempo ad andare da uno psichiatra che ascolta e
chiede. Ma è il dolore a distinguerci dalle pietre. Rainer Maria Rilke
aveva scritto che il dolore è quella prova che trasforma l’esperienza
esteriore che abbiamo del mondo in esperienza interiore. E cosa c’è oggi
di più sacrificato, di più negato, di più disprezzato, di più deriso,
di una tesi come questa?».